Laghi profondi dove nascono leggende,
tipi balzani, Gabriele D'Annunzio, misteri di periferia, mariuoli dal
cuore tenero che temono di inguaiarsi coi “pulotti” solo per
poter fare quel che è giusto, linguaggio pesantemente contaminato
dal dialetto da un lato e dalla ricerca del sublime dall'altro: io e
Pelagio D'Afro condividiamo un immaginario così popolato dalle
stesse ossessioni che mi vene quasi imbarazzante fare una recensione.
Mi ci trovo troppo bene in questa narrativa, in queste visioni
lancinanti di gallinelle d'acqua devastate dalla furia degli abissi
lacustri che vengono messe allo spiedo senza starci a pensare troppo,
aeroplani da disegnare, stelle a cui inventare un nome...
Al Conero ci sono stato una volta sola in vita mia, e proprio in compagnia dello stesso Pelagio, ma sono riuscito ad andare oltre al Conero turistico per confrontarmi in quello oscuro e magico solo tra le pagine di D'Afro. Il turismo di massa nasconde e banalizza una terra che ha un'anima profonda, popolare e inquietante, che la narrativa di D'Afro isola con la pazienza di un paleontologo che mette in luce lo scheletro di un drago annegato nel ciarpame balneare che lo soffoca e lo fa appassire. Per regalarci l'immagine del Conero sognato, vivo e antico, Pelagio sceglie una prosa volutamente barocca, ma mai stucchevole; ci vuole molto senso della misura e una classe smisurata per raccontare di cavalli bai che tirano carrozze leggere e figure spaurite flagellate dalla forza irosa dei flutti, senza strappare un sorriso di compatimento. Il miracolo di Pelagio è che questa lingua desueta diventa viva, e soprattutto realistica, valorizzando la storia e i personaggi: ci sembra di vedere un film in lingua originale, non è qcerto la lingua a cui siamo abituati, ma è l'unica veramente “giusta” per raccontare questa storia, per dare quel sapore indefinibile, il profumo dolciastro dei pitosfori mescolato all'odore salmastro del mare. Sapore di Conero. Sapore di mistero.
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