È da un po’ che voglio un lettore di ebook strafigo. Io sono un lettore vorace e crapulone. Non sono certo un fine buongustaio, uno di quelli che prima di comprare un libro lo aprono per saggiarne la prosa e assicurarsi che soddisfi il loro nobile palato.
Sono piuttosto un felice Gargantua che ruttando si ingozza di caviale con patate lesse, pernici in sarcofàge con rape e marmellata, pasta e fagioli coi tartufi, anatra all’arancio con la maionese, poi innaffia tutto di coca cola light.
Schermo da cinema o schermo da libro?
Nulla mi frega dei saggi avvisi dei fini conoscitori dell’e-mondo, che mi dicono “attento, ci vuole il rigore francescano dei monitor in bianco e nero con l’inchiostro intelligente! Lettori ultraleggeri, uguali in tutto e per tutto alla pagina stampata. Stai alla larga dai volgari cristalli liquidi retroilluminati, rutilanti di colori ed effetti speciali, che stancano la vista e non hanno per nulla l’aspetto della carta”.
“E che mi frega se stancano la vista” mi rispondo mentalmente mentre sorridendo ringrazio con sussiego il colto amico dell’utile consiglio, “io per lo più leggo in metropolitana e nel cesso, che sono gli ultimi momenti liberi che mi restano; per stancarmi la vista, delle due l’una: o sono nel metrò, è crollata la galleria e la Tre è rimasta bloccata sottoterra tipo minatori cileni, oppure sono nel cesso e… no, non voglio neanche pensarci alla seconda possibilità. Quanto alla carta, ne vedo già abbastanza sulle bollette, le raccolte di soldi per i poveri di Cacatuma, le multe e le cartelle esattoriali: ormai solo i rompiscatole usano la posta col francobollo e la dannata carta”.
Rinfrancato dalla finezza delle mie considerazioni, mi accingo dunque a comperare il più chiassoso, pacchiano e fighetto aggeggio per leggere libri che si possa desiderare.
Un buon candidato indubbiamente è l’Ipad della mela. Che nel suo lezioso design ultraminimal riesce a sembrare elegante, anche se si vede benissimo che è solo un iPhone che quando è caduto sotto lo schiacciasassi si è allargato e gli si è scassata la parte voce del telefono.
In metropolitana però fa la sua porca figura. Ti fa sembrare un sedicenne brufoloso un po’ nerd e un po’ tekno, finché non ci si accorge che invece che raccattare zucchine alla velocità del suono su effebì stai (ouch!) leggendo un libro.
Il guaio è che io e la Mela non siamo mai andati d’accordo.
Io sono grosso, grezzo e ridanciano. Quelli fanno robetta leggera, cinguettante e minimale.
Una volta, in un ristorante sul lago di Como, la mia amica Angiola mi disse con aria sognante che “il pesce di lago è così delicato”. Ecco, a me più che delicato mi sembra che non sa di un accidente. E non solo il pesce di lago, intendo.
Le mie esperienze con la Mela sono poche e dolorose. L’unica volta che mi ero fatto tentare, come un Adamo fesso che non ha nemmeno la scusa di un’ Eva nuda e seducente che gli offre il frutto avvelenato, risale a più di dieci anni fa; all’epoca convinsi la mia cara amica Angelina a comperare uno dei primi i-mac, quelli colorati col tubo catodico… Oggi Angelina è mia moglie, segno che mi ha perdonato. Ma io non posso perdonare l’incubo di quella macchina inaffidabile, instabile, troppo scarsa di memoria, di processore, di hard disk per fare qualsiasi cosa che non fosse pigliare polvere e suscitare una furia omicida nel malcapitato che la doveva usare.
Si impone un giro per trovare un’alternativa. A leggere su Internet pare che ci sia un’intera legione di “alternative all’iPad”. Occhei, tutto ma un’altra mela no, vuoi vedere che trovo la macchina dei miei sogni senza che il torsolo mi vada di traverso?
La tua anima mi appartiene
Pieno di baldanza vado alla Fnac di via Torino. Che ha una bella fila di Ipad in prova, celata dietro a una barriera di adolescenti, brufolosi e occhialuti, in adorazione alla Sacra Tavola. I corpi puzzolenti di sudore ed eccitazione dei giovinastri rendono molto difficile l’accesso, ma con (molta) pazienza lo riesco a prendere in mano il Venerabile Coso. Sarà suggestione, ma per un attimo mi è sembrato che sulla barra in alto apparissero due occhietti rossi, malvagi e sardonici. Vinco il disgusto e passo l’indice sullo schermo, talmente pieno di grasso di ditate dei nerd che ci si potrebbe friggere una trota. Le foto di un altro scorrono tra le mie dita, mi sembra di essere Tom Cruise in Minority Report. Ma dopo un po’ mi rompo le scatole di guardare foto di algide bellezze al bagno, in succinti bikini su paradisi tropicali; cerco disperatamente una via d’uscita dalla schermata, ma niente, sono prigioniero dei corpi perfetti delle statuarie fanciulle imperlate d’acqua salata che mi sorridono con professionale distacco. Arrivo a scuotere la tavola come se fosse una maracas, e inorridito il nerd più vicino sibila: “Ma che fa, signore? Il pulsante!”
Con le orecchie paonazze, finalmente capisco cos’è l’unico bottone della tavoletta: io ingenuo pensavo fosse l’interruttore per accenderlo, invece pensa te, è il tasto per uscire dalle applicazioni.
Seguito dalle occhiate cariche di malcelato disprezzo dei teknoboys, abbandono la postazione e con un brivido di piacere perverso chiedo al responsabile dell’area Mac della Fnac, un giovanotto che sembra esserci nato, in quella maglia nera con la mela, dov’è il Galaxy Tab di Samsung.
Quello sorride come uno che la sa lunga, e mi dice: “Ah certo, lo deve proprio vedere. È giusto qui nel corridoio centrale. Vada, va da a vederlo".
Mi giro impettito e il caldo, il caos, le lucine mi giocano brutti scherzi: giuro di averlo sentito sussurrare “Ci vediamo presto. La tua anima ormai mi appartiene”. O insomma, qualcosa di simile.
Non fa per te, papà.
La risposta coreana alla tavola americana troneggia al centro del corridoio.
Qui non ci sono orde di assatanati adoranti.
Qui non ci sono code da superare.
Qui non c’è nessuno.
Il monolite di Samsung fa girare un triste salvaschermo di una galassia multicolore, un giochino che fa tanto Vic 20 degli anni ‘80. Vorrei prenderlo in mano, se non altro per non darla vinta a quello là con la mela sulla maglietta. Ma mi basta un’occhiata al cartellino del prezzo (stratosferico) e una alle dimensioni dello schermo per capire che posso lasciarlo lì dov’è: è troppo piccolo per leggerci un libro, troppo grosso per telefonare, troppo caro per entrambe le cose. A qualcosa servirà, non dico di no. Ma quel qualcosa non serve a me.
Scosso dal primo contatto, chiedo aiuto agli amici di Facebook per trovare un’alternativa, o magari un antidoto, alla mela. Il panorama mi appare sconfortante: macchine strambe, di dubbia efficacia e di dubbissima reperibilità. Proposte strampalate come l’imperdibile pad con Android “che costa la metà dell’Apple”.
“Sì, ma non ha né il gps né il 3G”
“Certo, per quello che costa poco”. Aaah, ecco. Grazie assai.
Il dado è tratto. O quasi: prima di precipitare nel meloso girone, un fatidico sabato sera porto mio figlio Giacomino, 16 anni a gennaio, a toccare con mano l’aggeggio, per avere il conforto e la benedizione di un indigeno digitale.
Il sabato il caos dei nerd affastellati attorno al monolite del desiderio è semplicemente allucinante. Ma grazie al Cielo, con un po’ di spintoni e grazie all’aiuto di un immane tivù treddì che sposta un poco di folla al piano di sotto, riusciamo a mettere le mani sull’arnese. Ci lanciamo in una forsennata partita al videogioco del biliardino con i piattini. Momenti di pura adrenalina, che finiscono bruscamente quando il mio piattino si inchioda, chissà perché, sulla linea di centrocampo. Un solerte ragazzone con la maglietta della mela ci toglie dalle mani la macchina bloccata, per farla sparire dietro al bancone. Un segno del destino?
“Allora, che ne pensi?” chiedo a Giacomo, che ancora ha il fiato corto per l’eccitazione della battaglia a ditate.
Lui mi guarda con aria perplessa.
“Non fa per te, papà”.
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